Nel bicentenario della prima battaglia del Risorgimento
Di G. Paris, Lino Martini
La storia non ha riservato un grande spazio allo scontro che avvenne nei giorni dal 7 al 9 marzo del 1821 tra l’esercito napoletano dei Costituzionali guidato dal gen. Guglielmo Pepe e l’esercito austriaco inviato dall’Imperatore Francesco II per indurre i napoletani alla rinuncia della costituzione, da poco concessa dal re Ferdinando I di Borbone. Eppure quell’evento, a buona ragione, ha motivo di ritenersi la prima battaglia del Risorgimento perché fu il primo ad impegnare truppe italiane per ottenere un mondo diverso da quello disegnato dalla Restaurazione del 1815.
Alcuni ritengono che la prima battaglia sia quella sostenuta dal re di Napoli Gioacchino Murat contro gli austriaci a Tolentino nel 1815. Ma Gioacchino Murat si impegnò in quella battaglia per mantenere il proprio regno ed usò in modo strumentale la promessa che Napoli sarebbe diventata il primo tassello di un’Italia unita. La sua provenienza e la sua storia personale erano legate strettamente a Napoleone, la cui presenza in Italia ebbe i connotati di un tassello dell’Impero francese.
Con la Restaurazione iniziò una nuova era per gli stati europei, al cui interno lo sconquasso napoleonico aveva lasciato i germi di una nuova civiltà politica non basata più sul potere assoluto, ma quanto meno su una sua limitazione che consentisse ai ceti emergenti di partecipare alla vita pubblica.
Lo scontro tra i napoletani e gli austriaci del 1821 avvenne appunto perché, sulla spinta di tali novità, il popolo napoletano aveva ottenuto da Ferdinando I una costituzione che ne limitava, sia pur moderatamente, i poteri a favore del Parlamento.
Il moti del 1920-21 avevano per scopo non l’abolizione dell’istituto della monarchia, ma una lotta per gradi tesa a temperarne l’assolutismo sull’esempio della monarchia inglese che aveva adottato tale metodo da tempo. E’ così che inizia il Risorgimento italiano.
La battaglia si svolse tutta nella parte nord ovest del regno, al confine tra le Due Sicilie e lo Stato Pontificio a ridosso della città di Rieti, ed ebbe come linea dello scontro le colline che vanno dal colle di Lesta, situato in località Villa Reatina, e le colline dell’Annunziata fino alla frazione di Castelfranco. Il confine politico tra i due stati correva lungo tutto il fosso Ranaro, sottostante alle predette colline, fino al fiume Velino di cui è tributario.
Il Parlamento napoletano, di fronte alla notizia che l’imperatore aveva spedito un esercito per imporre la rinuncia alla costituzione da poco concessa di malavoglia da Ferdinando I, decise di resistere con le armi. Furono approntate due armate. Una guidata dal gen. Carrascosa, che avrebbe dovuto difendere il regno a sud ovest in caso di attacco proveniente dal mare Tirreno e l’altra a nord ovest nella provincia dell’Abruzzo ulteriore, dove il regno confinava con lo stato pontificio nei pressi della città di Rieti, guidata dal gen. Guglielmo Pepe che si era fatto le ossa al servizio degli eserciti napoleonici.
Il gen. Pepe, alla guida di circa 10.000 soldati dell’esercito regolare e di circa 5000 volontari messi insieme durante il trasferimento delle truppe sul luogo prescelto, raggiunse prima L’Aquila, capoluogo della provincia dell’Abruzzo ulteriore e di lì scese nell’alta valle del Velino facendo una prima sosta ad Antrodoco, all’epoca centro importante della provincia, dove effettuò una prima ricognizione della truppa. Il 6 marzo radunò lo stato maggiore dell’esercito a Cittaducale, importante città di confine a pochi km. dalla città di Rieti.
Considerata la netta sproporzione delle forze in campo il Generale elaborò una strategia di attacco al fine di prendere gli austriaci di sorpresa occupando prima la città di Rieti da sud, città dello Stato Pontificio difesa solo da truppe papaline, per poi respingere gli austriaci, provenienti da Terni, nelle balze delle colline dell’Annunziata dopo averli martellati con le artiglierie durante la marcia allo scoperto nella piana reatina.
Tutto però era basato sulla sorpresa. La città di Rieti doveva essere aggredita poco prima dell’alba e subito dopo occorreva partire per affrontare gli austriaci il più lontano possibile da Rieti nella direzione di Terni, da dove l’esercito imperiale avanzava.
Purtroppo la manovra verso Rieti non riuscì perché la colonna arrivò con molto ritardo, quando i papalini avevano potuto organizzarsi. Intanto il resto delle truppe, appostato sulla linea di confine, dette inizio al bombardamento della Piana reatina, ma non riuscì a fermare l’avanzata degli austriaci malgrado l’accanita resistenza delle truppe guidate dal gen. Villata.
Il gen. Pepe, che stazionava sul colle di Lesta, dal quale controllava tutto il campo della battaglia, si rese presto conto che le truppe austriache avrebbero sopraffatto quelle ai suoi ordini e dette subito ordine di ritirarsi retrocedendo prima a Cittaducale e successivamente ad Antrodoco dove iniziavano le gole che risalivano verso L’Aquila, manovra che avvenne il giorno 8 marzo.
Giunti ordinatamente ad Antrodoco, fu possibile organizzare una efficace resistenza per tutto il 9 marzo utilizzando il castello, ivi esistente in posizione difensiva, dal quale si dominava tutta la valle e consentendo all’esercito napoletano di risalire indisturbato fino a L’Aquila, e da lì fare ritorno a Napoli.
Il racconto di questi fatti d’arme fino a pochi anni fa ha fatto affidamento sulla relazione dei fatti del ministro della guerra del parlamento costituzionale Colletta e da alcune lettere del gen. Carrascosa scritte successivamente. Ma la loro versione dei fatti non è suffragata da documenti di riscontro, entrambe viziate da due moventi di sicuro affidamento.
Il Colletta era ministro della guerra di un esercito che era stato sconfitto, aveva per questo tutto l’interesse ad addossare la responsabilità della confitta al generale che lo aveva guidato ed alle sue truppe. Infatti egli parla di una disfatta e di una fuga dell’esercito di fronte al nemico mettendo in evidenza la poca perizia della condotta di Guglielmo Pepe.
Le fonti storiche inconfutabili ci parlano poi di una guerra sotterranea tra generali napoletani subito dopo la notizia della partenza da Vienna delle truppe austriache verso il napoletano. Carrascosa paventava che le cose potessero finire male e fu lieto di essere spedito a guidare il contingente che avrebbe dovuto difendere le rive a sud della Campania dove era meno probabile che gli austriaci avrebbero attaccato. Anche lui dopo la sconfitta raccontò una versione che metteva in dubbio le capacità strategiche militari del collega concorrente.
La storiografia non si è molto occupata di questo evento, ritenuto minore e poco interessante dal punto di vista storico e non è andata molto al di là di questi reperti, mentre la relazione dei fatti redatta dal Gen. Pepe è stata ritenuta di parte e viziata dall’interesse personale dello sconfitto.
Fatto sta che la vulgata Colletta-Carrascosa contrasta in modo molto evidente con la versione dei fatti contenuta nella relazione del gen. Frimont inviata all’Imperatore. Dalla stessa emerge una descrizione dei fatti bellici che evidenzia come il gen. Pepe avesse predisposto un piano strategico che consentiva alle sue truppe, pur minori di numero, di utilizzare al meglio le caratteristiche del territorio che misero in seria difficoltà le truppe austriache che avanzavano sulla piana reatina verso il confine del Regno delle due Sicilie. Pepe infatti aveva sfruttato al massimo le alture esistenti a ridosso della città di Rieti per posizionare le sue artiglierie nei migliori punti strategici, per espugnare i quali gli austriaci dovettero soffrire non poco pur essendo più del doppio dei napoletani.
Inoltre il gen. Frimont riconobbe che non si trattò di una fuga dell’esercito napoletano, ma di una ritirata ordinata e che gli austriaci dovettero penare non poco per espugnare la resistenza di Antrodoco, dove i napoletani si difesero in modo onorevole.
Il fatto è che le truppe regolari dell’esercito napoletano rientrarono ordinatamente a Napoli. Furono i soli volontari, dopo la risalita a L’Aquila, a tornare nelle loro case.
Ma v’è un altro aspetto che merita di essere svelato di questa vicenda del Risorgimento, non ancora emersa dagli studi, che chiarisce con quali mezzi l’Austria ha tenuto sotto il suo dominio imperiale per tre secoli gli stati italiani non solo imponendo prìncipi di stretta osservanza. Tutta la protezione militare dei piccoli troni veniva fatta a totale spese dei protetti e di quelli che per avventura si trovassero sulla strada delle truppe inviate a protezione.
Al gen. Frimont fu concesso un premio di scudi 220.000 (spropositato per quei tempi) e tutte le spese della spedizione e tutti i danni procurati dalle truppe austriache (che spesso si comportavano duramente) per arrivare a Napoli furono posti a carico delle casse del Regno delle due Sicilie che per ripianare il bilancio tartassò il popolo di tasse e gabelle per i decenni a seguire.
C’è un’ampia documentazione conservata negli archivi vaticani delle richieste di risarcimento avanzate dai sudditi del Papa per i danni ricevuti dalle truppe del Gen. Frimont, quasi sconosciuti agli studiosi, che dimostrano come l’ordine voluto dalla restaurazione del 1815 fu mantenuto a spese di coloro che non lo volevano.
Ma questa è la legge della storia. E ai cosiddetti posteri non resta che prenderne atto.